“Voi sessanta giorni, io sessant’anni. Se mi guardo indietro mi accorgo di essere stato sempre prigioniero. C’erano troppe porte da aprire e una sola chiave. Da ragazzo pensavo bastasse. Mi sentivo libero. Ero solo Diego e non ancora Maradona. Sapevo giocare a calcio. Muovevo le gambe a destra e a sinistra. Tenevo il pallone incollato ai piedi. Il primo me lo aveva regalato zio Cirilo a tre anni. Lo chiamavano El Tapòn perché faceva il portiere, saltava tra i pali come un tappo e non aveva paura di niente. A fine partita alzava la maglietta e sventolava i lividi proprio come le ragazze che inseguivo sulle riviste da adolescente mostravano le tette. A un tratto uscirono dai giornali e mi vennero a cercare. Bello non ero e non sono mai stato, ma la gente cantava il mio nome. Batteva i piedi all’unisono e sembrava che la terra stesse per sprofondare. In quelle giornate, nell’unico carcere in cui l’ora d’aria non mi pesava, vedevo orizzonti sterminati dove gli altri incontravano solo mura. Il campo era la Pampa. Cadevo da cavallo, prendevo colpi e mi rialzavo. Le tribune dello stadio somigliavano alle facciate dei palazzi lussuosi. Quelle di casa mia erano di lamiera e cartone. Papà si alzava all’alba e rincasava che era notte. Andava verso il fiume nero, il Riachuelo e prendeva posto in fabbrica. Macinava ossa, alzava polvere e l’olezzo dei suoi vestiti lo precedeva. Lo aiutai papà. E aiutai anche nonna Salvadora e mamma Tota. Che amava Evita e ogni tanto le rivolgeva una preghiera. Mamma mi aveva insegnato a farmi il segno della croce e a Cornejo, l’allenatore delle cebollitas, le giovanili dell’Argentinos Juniors, la mia prima squadra, che le aveva predetto un grande futuro per suo figlio aveva risposto soltanto «Se dio vorrà, accadrà». In croce più tardi sono finito io. Hanno detto che sono stato inchiodato dalle origini, dal talento e dal destino. Tutte cazzate. Se ho allargato le braccia e mi sono arreso è accaduto perché i miei sogni erano troppo grandi. Li toccavo, li raggiungevo e avevo paura me li portassero via un minuto dopo. Li divoravo come l’animale in gabbia sbrana le sue razioni. Ho sempre avuto dei problemi con la parola moderazione. I maestri di morale alzavano il ditino. Giudicavano senza sapere niente. «Ti devi controllare, Diego» mi dicevano quelli che giuravano di volermi bene. Ma loro, Villa Fiorito non l’avevano mai vista. E del pozzo nero con gli scarichi delle baracche traboccante di merda e di liquami da cui venni tirato fuori per miracolo a due anni da zio Cirilo, non avevano mai sentito l’odore. Sono sempre stato sotto pressione. Il successo, la fama, le aspettative. A 15 anni mantenevo la famiglia. A venti reclamizzavo compagnie aeree, spazzolini, prodotti per la scuola e bambolotti. Mi facevano sentire come dio, ma il burattino senza fili, il pupazzo, ero io. Ho ricevuto tanto, ma il resto me l’hanno rubato. Ora che il mondo è in lockdown o come dicono dalla tv a tutto volume è in cierre de emergencia, adesso che della porta di casa ho la chiave ma non posso più uscire, in questo momento in cui ogni passo tra la poltrona e il frigorifero mi pesa, alzarmi è faticoso e non scivolo più tra i vicoli per recuperare la stagnola dei pacchetti di sigarette e rivenderla come da bambino, so che se è andato tutto in fumo non è stato solo per colpa mia. Sarebbe servita più pietà e meno indulgenza. Sono stato sempre di proprietà di qualcun altro. Incatenato dai tifosi, dalla patria, dai soldati, dalla bandiera, dai contratti, dai viaggi, dalle amicizie pericolose, dai figli di puttana, dal mio corpo. Non potevo camminare per strada. Non potevo fermarmi a un semaforo. Non potevo fare un bagno al mare. Sempre circondato. In battaglia. I microfoni. Le invenzioni. Le bugie. Le mie e quelle degli altri. «Diego una foto». «Diego un autografo». «Diego una maglietta». Vendevano le malattie dei figli, agitavano il ricatto sentimentale, ti facevano sentire in colpa. A Tokyo volevano ciocche di capelli. A Barcellona che dimenticassi gli infortuni a colpi di iniezioni. A Napoli la mia vita. Ma la mia vita non c’era più. Vivevo in confinamento. Con il filo spinato della ringhiera bianca di un appartamento, il pellegrinaggio mattutino sotto casa e come unica via di fuga la sessione di allenamento. Quando uscivo di sera mi perdevo. Non era uno smarrimento felice. Non erano sinceri i sorrisi. Tra i bagni e le piste da ballo spirava un’aria da festa lugubre. Ero assalito dai proci, ma chissà da quanto non ero più Ulisse. Ero solo un involucro. Un uovo di pasqua senza sorpresa. Mi dedicai ai vizi. Ero bravissimo in quello. Feci un figlio, quasi per caso. Mi sdoppiai fino a non ritrovarmi più. Volevo respirare e non respiravo. Volevo evadere, ma i miei secondini non me lo permettevano. Volevo essere Diego ed ero diventato soltanto Maradona. Fernando Signorini, il mio preparatore atletico, aveva una teoria. Sosteneva che c’era Diego e che poi esistesse Maradona, un personaggio che ero stato costretto ad inventare per andare incontro alle esigenze mediatiche e commerciali. Maradona non poteva permettersi debolezze. Ma io ero un uomo. Ero imperfetto.E le debolezze erano le mie migliori amiche. Fernando mi disse che con Diego sarebbe andato in capo al mondo, ma che con Maradona non avrebbe preso neanche un caffè. Gli risposi che lo capivo, ma che se non fosse stato per Maradona sarei stato ancora a Villa Fiorito a desiderare coca cola e biscotti come un qualunque ragazzino della Recoleta. Ero tutte e due le cose, ma Diego non lo riconoscevo più e mi capitava sempre più spesso di parlare in terza persona. In breve non ce ne fu più neanche una. Ero altro da me. Napoli tollerava tutto e fingeva di non accorgersi di niente. Vincemmo, perdemmo e poi finì tutto. Sbiadirono gli affreschi dei murales e cambiò anche il colore del cielo. Mi fischiarono persino al San Paolo.Sentii soffiare l’odio in una notte d’estate a Roma. Ero il bersaglio. Il nemico pubblico. Il topo da intrappolare. Tra una striscia di cocaina e quella di un aereo mi imbarcai nuovamente nella stiva. Atterrai in una cella persino peggiore di tutte quelle che avevo attraversato in precedenza. Misi le impronte, come una bestia, su un registro di Polizia. Avevo gli occhi aperti, ma mi pareva di essere già morto. Provai a resuscitare e in un pomeriggio caldissimo un’infermiera americana mi accompagnò definitivamente fuori dal campo. Quello che è accaduto dopo si chiama invecchiare. Mi sono sentito solo, ma a essere onesto non più di quanto sono stato solo prima. Sono ingrassato e adesso se cammino in un campo ho le sembianze dei miei primi allenatori. Arrigo Sacchi, un genio, giurava che giocare contro di me era come giocare contro il tempo.Era come sapere che prima o poi avrei segnato o fatto segnare. Ora non faccio più gol e neanche li riguardo. Fanno male come come certi raggi di sole. Provi ad attraversarli, ma ti accecano. E io voglio ancora sperare. Vedere. Sapere che domani potrò ancora aprire gli occhi. È trascorso molto tempo da quando avevo la zazzera nera, ma in fondo sono sempre il figlio di due contadini di Esquina e ne sono orgoglioso. Sono diventato vecchio. Dicono che ai vecchi faccia visita la saggezza, ma è una mentira, una balla, una menzogna anche quella. Al limite diventano più attenti. Più prevedibili. Non fanno serpentine né scommesse, i vecchi. Non migliorano. Non diventano più buoni. Non cambiano. Aspettano domani. E in prigione, protetti, non stanno poi così male.”
Malcom Pagani per ”Vanity Fair” – 31 MAGGIO 2020