Andrà tutto a pu**ane

Dai tempi dell'”allegro ventennio”, possiamo dire senza rischi di smentite che nessun premier ha avuto più poteri in mano di Giuseppe Conte. La gente chiusa in casa, il coprifuoco, il governo del paese a colpi di DPCM, l’esercito nelle strade…no, no, non sto parlando del sud America degli anni 70 e 80…

Pur non avendo votato per le forze politiche che lo sostengono, non vi nascondo che nutro una grande simpatia per l’avvocato del popolo. Abbiamo finalmente un premier presentabile di fronte all’opinione pubblica mondiale. Sa parlare inglese, e non è cosa scontata. Ha un certo savoir faire, è innegabile. E’ un bell’uomo. Però, però, però… mi faccio tante domande…

Com’è possibile che una persona di così alto profilo ed innegabile intelligenza sia caduto così platealmente nella banalità da protagonismo che lo accomuna a tutti quello che lo hanno preceduto (vedi la sceneggiata degli stati generali di questa estate) ?

Com’è possibile che non riesca ancora a governare questa crisi Covid nonostante gli assegni in bianco che gli hanno passato nell’ordine l’Unione Europea, il Presidente Mattarella, la maggioranza, la minoranza, la stragrande maggioranza dei giornalisti e degli opinion leader, i sindacati e tutta la compagnia cantante?

Com’è possibile che – a fronte di un probabile annullamento delle regole sul debito pubblico ed a una messa a disposizione di fondi superiori al piano Marshall – non si sia ancora arrivati ad un programma certo sugli investimenti da fare nei prossimi anni?

Com’è possibile che si sia fatta una figuraccia tale sulla nomina del commissario alla sanità della regione Calabria? Anzi, com’è possibile che nell’anno domini 2020 si debba ricorrere sempre all’uomo forte (vedi commissario) per gestire le situazioni critiche (sanità, protezione civile, trasporti, regioni, ecc.) ?

Com’è possibile che l’ottavo paese al mondo per indice PIL abbia un digital divide devastante (siamo al 25esimo posto su 28 nella classifica DESI 2020 -Indice di digitalizzazione dell’economia e della società- seguiti solo da Romania, Grecia e Bulgaria) che fa sì che una famiglia composta da quattro persone vada in crisi quando due figli devono seguire le lezioni a distanza ed un genitore deve lavorare in remote working?

Com’è possibile che i tribunali, enti, comuni, ospedali, camere di commercio, motorizzazione e via dicendo siano bloccati e sommersi da tonnellate di archivi di carta quando le tecnologie paperless (in cui siamo leader e che vendiamo al resto del mondo) ci permetterebbero di velocizzare tutti i workflow, con l’innegabile vantaggio di creare un immensità di posti di lavoro? Com’è possibile che gli enti statali utilizzino e richiedano ancora una tecnologia degli anni 70 del secolo scorso come il fax?

Com’è possibile che al più importante partito di opposizione (in termini di voti) venga concesso di restituire i 49 milioni di euro illecitamente sottratti al popolo italiano in comode rate di 70 anni (sic) mentre un lavoratore autonomo viene letteralmente ucciso e fatto fallire per una cartella esattoriale da 100 euro?

Com’è possibile che alla stragrande maggioranza dei colossi aziendali operanti in Italia venga permesso di gestire allegramente i propri capitali in paradisi fiscali tramite centinaia di fittizie scatole fiscali mentre si rincorrono e ci si accanisce sui baristi e su quante piadine senza ripieno si possono vendere a regime (notizia di questi giorni) ? Ma com’è possibile che la gente non scenda in piazza con i forconi di fronte a queste ingiustizie? Ma cittadini, avete mai visto una puntata del magnifico programma Report senza avere voglia di sputare per terra?

“È accaduto così in tutte le epoche del mondo che alcuni hanno lavorato e altri hanno, senza lavoro, goduto di una gran parte dei frutti. Questo è sbagliato, e non deve continuare.”

ABRAHAM LINCOLN

D10s è morto (?)

“Voi sessanta giorni, io sessant’anni. Se mi guardo indietro mi accorgo di essere stato sempre prigioniero. C’erano troppe porte da aprire e una sola chiave. Da ragazzo pensavo bastasse. Mi sentivo libero. Ero solo Diego e non ancora Maradona. Sapevo giocare a calcio. Muovevo le gambe a destra e a sinistra. Tenevo il pallone incollato ai piedi. Il primo me lo aveva regalato zio Cirilo a tre anni. Lo chiamavano El Tapòn perché faceva il portiere, saltava tra i pali come un tappo e non aveva paura di niente. A fine partita alzava la maglietta e sventolava i lividi proprio come le ragazze che inseguivo sulle riviste da adolescente mostravano le tette. A un tratto uscirono dai giornali e mi vennero a cercare. Bello non ero e non sono mai stato, ma la gente cantava il mio nome. Batteva i piedi all’unisono e sembrava che la terra stesse per sprofondare. In quelle giornate, nell’unico carcere in cui l’ora d’aria non mi pesava, vedevo orizzonti sterminati dove gli altri incontravano solo mura. Il campo era la Pampa. Cadevo da cavallo, prendevo colpi e mi rialzavo. Le tribune dello stadio somigliavano alle facciate dei palazzi lussuosi. Quelle di casa mia erano di lamiera e cartone. Papà si alzava all’alba e rincasava che era notte. Andava verso il fiume nero, il Riachuelo e prendeva posto in fabbrica. Macinava ossa, alzava polvere e l’olezzo dei suoi vestiti lo precedeva. Lo aiutai papà. E aiutai anche nonna Salvadora e mamma Tota. Che amava Evita e ogni tanto le rivolgeva una preghiera. Mamma mi aveva insegnato a farmi il segno della croce e a Cornejo, l’allenatore delle cebollitas, le giovanili dell’Argentinos Juniors, la mia prima squadra, che le aveva predetto un grande futuro per suo figlio aveva risposto soltanto «Se dio vorrà, accadrà». In croce più tardi sono finito io. Hanno detto che sono stato inchiodato dalle origini, dal talento e dal destino. Tutte cazzate. Se ho allargato le braccia e mi sono arreso è accaduto perché i miei sogni erano troppo grandi. Li toccavo, li raggiungevo e avevo paura me li portassero via un minuto dopo. Li divoravo come l’animale in gabbia sbrana le sue razioni. Ho sempre avuto dei problemi con la parola moderazione. I maestri di morale alzavano il ditino. Giudicavano senza sapere niente. «Ti devi controllare, Diego» mi dicevano quelli che giuravano di volermi bene. Ma loro, Villa Fiorito non l’avevano mai vista. E del pozzo nero con gli scarichi delle baracche traboccante di merda e di liquami da cui venni tirato fuori per miracolo a due anni da zio Cirilo, non avevano mai sentito l’odore. Sono sempre stato sotto pressione. Il successo, la fama, le aspettative. A 15 anni mantenevo la famiglia. A venti reclamizzavo compagnie aeree, spazzolini, prodotti per la scuola e bambolotti. Mi facevano sentire come dio, ma il burattino senza fili, il pupazzo, ero io. Ho ricevuto tanto, ma il resto me l’hanno rubato. Ora che il mondo è in lockdown o come dicono dalla tv a tutto volume è in cierre de emergencia, adesso che della porta di casa ho la chiave ma non posso più uscire, in questo momento in cui ogni passo tra la poltrona e il frigorifero mi pesa, alzarmi è faticoso e non scivolo più tra i vicoli per recuperare la stagnola dei pacchetti di sigarette e rivenderla come da bambino, so che se è andato tutto in fumo non è stato solo per colpa mia. Sarebbe servita più pietà e meno indulgenza. Sono stato sempre di proprietà di qualcun altro. Incatenato dai tifosi, dalla patria, dai soldati, dalla bandiera, dai contratti, dai viaggi, dalle amicizie pericolose, dai figli di puttana, dal mio corpo. Non potevo camminare per strada. Non potevo fermarmi a un semaforo. Non potevo fare un bagno al mare. Sempre circondato. In battaglia. I microfoni. Le invenzioni. Le bugie. Le mie e quelle degli altri. «Diego una foto». «Diego un autografo». «Diego una maglietta». Vendevano le malattie dei figli, agitavano il ricatto sentimentale, ti facevano sentire in colpa. A Tokyo volevano ciocche di capelli. A Barcellona che dimenticassi gli infortuni a colpi di iniezioni. A Napoli la mia vita. Ma la mia vita non c’era più. Vivevo in confinamento. Con il filo spinato della ringhiera bianca di un appartamento, il pellegrinaggio mattutino sotto casa e come unica via di fuga la sessione di allenamento. Quando uscivo di sera mi perdevo. Non era uno smarrimento felice. Non erano sinceri i sorrisi. Tra i bagni e le piste da ballo spirava un’aria da festa lugubre. Ero assalito dai proci, ma chissà da quanto non ero più Ulisse. Ero solo un involucro. Un uovo di pasqua senza sorpresa. Mi dedicai ai vizi. Ero bravissimo in quello. Feci un figlio, quasi per caso. Mi sdoppiai fino a non ritrovarmi più. Volevo respirare e non respiravo. Volevo evadere, ma i miei secondini non me lo permettevano. Volevo essere Diego ed ero diventato soltanto Maradona. Fernando Signorini, il mio preparatore atletico, aveva una teoria. Sosteneva che c’era Diego e che poi esistesse Maradona, un personaggio che ero stato costretto ad inventare per andare incontro alle esigenze mediatiche e commerciali. Maradona non poteva permettersi debolezze. Ma io ero un uomo. Ero imperfetto.E le debolezze erano le mie migliori amiche. Fernando mi disse che con Diego sarebbe andato in capo al mondo, ma che con Maradona non avrebbe preso neanche un caffè. Gli risposi che lo capivo, ma che se non fosse stato per Maradona sarei stato ancora a Villa Fiorito a desiderare coca cola e biscotti come un qualunque ragazzino della Recoleta. Ero tutte e due le cose, ma Diego non lo riconoscevo più e mi capitava sempre più spesso di parlare in terza persona. In breve non ce ne fu più neanche una. Ero altro da me. Napoli tollerava tutto e fingeva di non accorgersi di niente. Vincemmo, perdemmo e poi finì tutto. Sbiadirono gli affreschi dei murales e cambiò anche il colore del cielo. Mi fischiarono persino al San Paolo.Sentii soffiare l’odio in una notte d’estate a Roma. Ero il bersaglio. Il nemico pubblico. Il topo da intrappolare. Tra una striscia di cocaina e quella di un aereo mi imbarcai nuovamente nella stiva. Atterrai in una cella persino peggiore di tutte quelle che avevo attraversato in precedenza. Misi le impronte, come una bestia, su un registro di Polizia. Avevo gli occhi aperti, ma mi pareva di essere già morto. Provai a resuscitare e in un pomeriggio caldissimo un’infermiera americana mi accompagnò definitivamente fuori dal campo. Quello che è accaduto dopo si chiama invecchiare. Mi sono sentito solo, ma a essere onesto non più di quanto sono stato solo prima. Sono ingrassato e adesso se cammino in un campo ho le sembianze dei miei primi allenatori. Arrigo Sacchi, un genio, giurava che giocare contro di me era come giocare contro il tempo.Era come sapere che prima o poi avrei segnato o fatto segnare. Ora non faccio più gol e neanche li riguardo. Fanno male come come certi raggi di sole. Provi ad attraversarli, ma ti accecano. E io voglio ancora sperare. Vedere. Sapere che domani potrò ancora aprire gli occhi. È trascorso molto tempo da quando avevo la zazzera nera, ma in fondo sono sempre il figlio di due contadini di Esquina e ne sono orgoglioso. Sono diventato vecchio. Dicono che ai vecchi faccia visita la saggezza, ma è una mentira, una balla, una menzogna anche quella. Al limite diventano più attenti. Più prevedibili. Non fanno serpentine né scommesse, i vecchi. Non migliorano. Non diventano più buoni. Non cambiano. Aspettano domani. E in prigione, protetti, non stanno poi così male.”

Malcom Pagani per ”Vanity Fair” – 31 MAGGIO 2020